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L’omicidio di Saverio Liardo un esempio per chi non voleva pagare

Di Gaetano Liardo il . Sicilia

Ucciso perchè si rifiutò di pagare il pizzo ai boss. E’ questa la verità giudiziaria emersa dalla sentenza del Tribunale di Catania sull’omicidio di Saverio Liardo. Condanna a sedici anni nei confronti di Giuseppe Ferrera: «Per avere – si legge nel dispositivo – in concorso con Barone Antonio (deceduto nelle more del procedimento) e La Russa Francesco (nei cui confronti si procede separatamente) cagionato la morte di Liardo Saverio». Con l’aggravante di: «Aver commesso il fatto al fine di agevolare l’associazione mafiosa di appartenenza».

Una verità che si aspettava da quel 18 ottobre del 1994 quando i tre killer fecero irruzione nel distributore di benzina uccidendo Saverio Liardo. Erano gli anni della guerra criminale tra Cosa nostra e la Stidda combattuta a Gela, Niscemi, Vittoria con particolare violenza e intensità. Una guerra che richiedeva molto denaro per poter essere sostenuta dai due schieramenti. Soldi, tanti soldi da estorcere a commercianti e imprenditori. Non poteva, quindi, essere tollerata nessuna defezione. E’ in questo contesto che matura la decisione del gruppo di fuoco collegato alla Stidda di uccidere Saverio Liardo. Lavoratore instancabile e onesto non voleva piegarsi al diktat dei boss. Una ricostruzione che emerge dai verbali degli interrogatori di Giuseppe Ferrera, divenuto collaboratore di giustizia.

«Quindi là eravamo in guerra – si legge – eravamo, siccome Liardo Saverio non apparteneva lui a nessuno, non apparteneva, siccome quello era un distributore che faceva tanti soldi, quando ha l’ordine quello il mio capo di prendere i soldi, allora c’era la guerra, c’era». Saverio Liardo “non apparteneva a nessuno”, racconta il collaboratore di giustizia, quindi era un bersaglio facile da colpire. Ostinato a non cedere a compromessi, a non piegarsi davanti alla richiesta di pagare 5 milioni di lire alla cosca, doveva essere “punito”. Liardo aveva lanciato una sfida e poteva essere seguito dagli altri commercianti e imprenditori di Niscemi e dei paesi limitrofi. Un rischio troppo grosso per gli Stiddari.

Il Pm domanda: «..e quindi lei è andato a colpo sicuro: per uccidere e basta», Ferrera risponde: «Si, direttamente a colpo sicuro, perchè mi hanno ordinato di fare questo». «Perchè a noi poi non interessava più – aggiunge – io lo sapevo che ci aveva i soldi addosso, noi lo sapevamo, però dobbiamo dare un esempio agli altri che non pagavano». E’ tutta in queste parole la triste verità dell’omicidio di Saverio Liardo.  La sua morte doveva servire da esempio per stroncare sul nascere la resistenza civile contro il pizzo. E’ la stessa brutta storia che ha colpito Libero Grassi a Palermo nel 1991, e nelle vicina Gela Gaetano Giordano nel 1992. Una storia simile a centinaia di altre nel nostro Paese.

La sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Catania il 14 luglio del 2010 insiste molto su questo punto. Il giudice scrive che i reati commessi da Ferrera (l’unico giudicato) sono stati: «Perpetrati (…) allo scopo di intimidire tutti i commercianti sottoposti ad estorsione per effetto della punizione “esemplare” inflitta a quello tra costoro che aveva rifiutato di soggiacere alle pretese del clan medesimo e di persuadere conseguentemente tutti gli altri a corrispondere le tangenti ad ognuno richieste».

Ucciso, denigrato e dimenticato. A diciassette anni dall’omicidio servirebbe recuperare la memoria di Saverio Liardo, ucciso perchè si è ribellato alle mafie. Un gesto che ancora in pochi sono capaci di fare.    

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