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Cave, persi ogni anno 500 milioni di euro

Di Valeria Meta il . Lazio

L’attività estrattiva in Italia
muove un volume d’affari pari a un miliardo e 735 milioni di euro
ogni anno; nelle casse delle regioni, però, non ne arrivano neanche
53 milioni. Un dossier redatto da Legambiente analizza i dati relativi
ai proventi dello sfruttamento delle cave e fotografa una situazione
paradossale. Mediamente, infatti, nelle regioni italiane si paga appena
il 4% del prezzo di vendita degli inerti, mentre in alcune, quali Valle
d’Aosta, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, l’estrazione
è addirittura gratuita. Il rapporto quantifica in cinquecento milioni
di euro l’indotto che Stato ed enti regionali rinunciano a incassare,
per di più esponendo il territorio al rischio dell’illegalità.

Intorno all’attività di estrazione
ruotano settori chiave dell’economia italiana, dall’edilizia e le
infrastrutture alla ceramica e ai materiali pregiati, ma anche questioni
estremamente rilevanti per quanto riguarda il paesaggio e la gestione
di una risorsa non rinnovabile qual è il suolo. Per queste ragioni,
il dossier interviene a fare il punto della situazione in Italia, sia
sotto il profilo economico che sotto quello legislativo. Si scopre così
che in Italia le cave attive sono circa seimila, per un totale di 142
milioni di metri cubi di inerti estratti ogni anno, prevalentemente
in Puglia, Basilicata e Lazio che da sole raggiungono il 50% delle estrazioni.
Il dato sbalorditivo è che a fronte di simili numeri, i canoni di concessione
versati da chi cava nelle casse regionali risultano a dir poco irrisori,
quando non addirittura inesistenti. Una situazione assurda se si pensa
al peso che le ecomefie hanno nella gestione del ciclo del cemento e
nel controllo delle cave del Mezzogiorno, ma resa in parte possibile
da una regolamentazione risalente al 1927 e da una legge del 1977 che
demanda alle regioni la facoltà di stabilire regole in materia. Il
disinteresse dimostrato dalle istituzioni regionali ha però determinato
l’anomalia delle ridicole entrate garantite agli enti pubblici dall’applicazione
dei canoni a fronte dell’imponente volume d’affari del settore.
Dall’esame del quadro normativo vigente nelle regioni si evince chiaramente
che l’assenza dei piani di cava ha come conseguenza il determinarsi
di una enorme discrezionalità in coloro che autorizzano l’apertura
di nuove cave, con il conseguente rafforzamento delle lobbies dei cavatori
e delle ecomafie. In generale, l’esigenza di una cornice di regole
nazionali che fissi limiti e criteri dell’attività estrattiva sembra
urgente anche alla luce delle leggi regionali che vi pongono limiti
molto blandi, come anche dei piani che spesso altro non fanno che rispecchiare
le richieste dei cavatori.

È chiaro che occorre un tempestivo
intervento per riqualificare il territorio e fare sì che le attività
estrattive siano sottratte alla criminalità organizzata e costituiscano
una risorsa economica per gli enti locali. Le proposte di Legambiente
indicano come obiettivi prioritari la riduzione dell’impiego di inerti
di cava nell’edilizia e la relativa produzione di rifiuti da costruzione,
l’adeguamento dei canoni di concessione alla realtà europea (l’esempio
da seguire è quello britannico) nonché il rafforzamento della pianificazione
e del controllo delle attività sui territori. A questi deve aggiungersi
l’incentivo all’innovazione nel settore sul modello danese, per
cui sono le stesse imprese a gestire il processo di demolizione selettiva
e riciclo al posto del conferimento in discarica.  Perché una
risorsa tanto importante non può avere come regime normativo quello
dettato dalle mafie.

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