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4. 1992-93, Il biennio rosso

Di Alessio Magro il . Abruzzo

L’Abruzzo è investito dalla bufera giudiziaria che nel biennio ’92-’93 scuote il Paese. Mafia e politica, corruzione e affari, massoneria e infiltrazioni, al di là del dato giudiziario emergono intrecci perversi che fanno della regione un vero e proprio laboratorio politico-affaristico. Lo rivelano le inchieste che partono da Milano, Firenze, Palermo, Palmi. Dalla Tangentopoli meneghina all’inchiestona sulle logge segrete del giudice Cordova a Palmi. Una bufera giudiziaria, quella del bienno ’92-’93, che investe in pieno l’Abruzzo. 

Il faccendiere della mafia

Tutto parte dall’inchiesta sulla mafia dell’autoparco, gestita da Giovanni Salesi e riconducibile a Gimmi Miano. Per i pm di Milano si tratta una base delle cosche siciliane al Nord (Cursoti, Santapaola, Madonia) per traffici di armi e droga, frequentata e coperta da politici e massoni. All’inchiesta si sovrappongono le indagini della procura di Firenze (alcuni filmati vanno in onda sul Tg5 di Enrico Mentana): finisce in cella l’imprenditore Angelo Fiaccabrino, massone, originario di Licata (Agrigento), esponente del Psdi milanese, accusato di aver riciclato i proventi dei traffici di droga delle famiglie siciliane e di aver preso i voti delle cosche alle elezioni politiche del ’92. È accertato che Fiaccabrino ha investito ingenti capitali in operazioni immobiliari in Abruzzo, costruendo anche un albergo nel chietino coi fondi per il Mezzogiorno. Fiaccabrino è anche in affari con Salesi, con l’avvio di una società di lavorazione dell’alluminio in Abruzzo. Vengono coinvolti altri professionisti abruzzesi.  

Mani pulite

Soprattutto l’inchiesta fa entrare la questione mafiosa nel ciclone di Mani pulite. Alla fine del ’93, su 6mila indagati e 3mila arrestati in totale, l’Abruzzo conta 400 persone sott’inchiesta e 200 in cella. Il dato è significativo: davanti ci sono Sicilia e Campania, Lombardia e Lazio, a pari merito la Calabria. L’Abruzzo è con il gruppo delle regioni a occupazione mafiosa e con le capitali della corruzione. 

Picciotti&fratelli

La terra del Gran Sasso è anche terra di grandi e piccole logge, coperte. La “Guglia d’Abruzzo” finisce nel famigerato elencone del giudice Agostino Cordova da Palmi. Scattano perquisizioni e sequestri, fra gli indagati figurano alti esponenti del Psi, che sono accusati di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. 

Pescara come Palermo

Nel marzo del ’93 il procuratore Enrico Di Nicola scrive una corposa relazione, invocando l’intervento della commissione antimafia. Secondo il magistrato, la situazione è al punto di non ritorno: Pescara potrebbe presto diventare una nuova Palermo o Napoli. Servono rinforzi, per evitare che la grande criminalità, ormai presente in Abruzzo, si saldi con la malavita tradizionale e metta sotto assedio il territorio. 

Black jack, la mafia autoctona

Nel maggio del ’93 scatta l’operazione Black jack: una ventina finiscono in cella con l’accusa di associazione mafiosa, per un giro di gioco d’azzardo nei locali notturni. L’organizzazione ha contatti operativi con la camorra, pratica l’estorsione e porta a termine rapine, sfidando la concorrenza criminale.

Il primo processo

Dopo pochi mesi prende il via in Abruzzo il primo procedimento per reati di mafia, relativo alla Black jack. Sono in 26 alla sbarra. E’ Pescara l’epicentro, ma la banda si ramifica in tutta la regione, da Francavilla a Montesilvano, da Celano a Roseto degli Abruzzi. Tanti circoli, tanti locali notturni, tante bische clandestine. Volevano affermare la loro supremazia, volevano il controllo su tutto il sistema, tanto da imporre il pizzo alle altre bische e mandare in fumo i locali ribelli. Tanto da farci scappare il morto (un omicidio avvenuto nel marzo precedente).

Arriva l’antimafia

Invocata e temuta, nell’ottobre del ’93 c’è finalmente la visita della commissione parlamentare antimafia. Nell’agenda i capitoli appalti e infiltrazioni, a partire dalla presenza dei cavalieri del lavoro catanesi e di grossi gruppi economici che gli esperti definiscono sospetti. Dai lavori emerge che negli ultimi tre anni la presenza della criminalità organizzata ha assunto dimensioni considerevoli sulla costa teramana, nel basso aquilano, nell’area metropolitana pescarese e al Sud della provincia chietina. Preoccupano le infiltrazioni lungo tutta la costa, i tentativi della Scu di federare le organizzazioni malavitose locali, la diffusione del gioco d’azzardo e dell’usura, grimaldello usato da cosa nostra e camorra. Si teme per la tenuta di settori esposti, come le intermediazioni finanziarie e l’edilizia turistico-alberghiera. C’è la consapevolezza dell’enorme flusso di investimenti di capitali sporchi, investimenti che preludono all’insediamento sul territorio in pianta stabile della criminalità organizzata. E c’è la consapevolezza della debolezza delle istituzioni politiche, screditate dalle inchieste sulla corruzione e “malleabili a infiltrazioni malavitose”.  

Il dossier Smuraglia: nessuna isola felice

Siamo nel ’93, più di 15 anni fa. Quella in Abruzzo e una delle nove missioni dell’Antimafia, del Centro e del Nord Italia. Sono dodici le regioni sotto la lente. Una certezza prende piede: “Non esistono più isole felici: praticamente non c’è una sola delle aree considerate che vada esente da fenomeni di tipo mafioso o di infiltrazioni dello stesso tipo nel tessuto economico e nel mondo degli affari” si legge nel rapporto della commissione sulle aree “non tradizionali”. Un ampio documento presentato dal senatore pds Carlo Smuraglia nel dicembre di quell’anno. Un documento storico, la prima analisi dettagliata sull’Italia centro-settentrionale sotto assedio mafioso. È tutto scritto, un copione che sarà recitato alla lettera. Dalla diffusione dell’usura e delle estorsioni nell’Italia “bene” ai tentativi di colonizzazione economica con investimenti in immobili (soprattutto nelle zone turistiche) e le acquisizioni delle aziende in crisi, già allora attraverso prestanome. Ci sono poi i tentativi di insediamento classico, con il controllo del territorio e l’affiliazione della malavita locale. C’è la corsa agli appalti pubblici.  

La mafia e la Borsa

C’è soprattutto la finanziarizzazione della mafia: il reinvestimento e il riciclaggio del denaro sporco avviene per il 60% attraverso canali finanziari, nel Centro e nel Nord del paese. Un fiume di soldi: già nel ’93 il fatturato della Mafie spa è stimato in 65mila miliardi di lire (circa 35 miliardi di euro). Si capisce da subito che un simile flusso di denaro può inquinare l’intera economica del paese, si capisce da subito anche che contrastare le mafie su questo piano è difficoltoso: i soldi producono ricchezza e non puzzano. 

Un punto fermo, ma non troppo

E la relazione Smuraglia individua le negligenze, le sottovalutazioni e le colpe gravi della lotta alla mafia in quegli anni di frontiera: dall’incapacità nel contrasto delle infiltrazioni economiche delle mafie all’“impiego sconsiderato del soggiorno obbligato”. Da quella data nessuno può più dire di non sapere, di non conoscere. Eppure c’è chi lo fa, eccome. Non passano neanche due mesi: nel gennaio del ’94 l’anno giudiziario si apre a L’Aquila con un occhio alla corruzione dilagante e l’altro alla mafia. Ma con un indirizzo controverso: l’Abruzzo “non corre imminenti pericoli di invasione mafiosa”. Un refrain che si udirà spesso negli anni successivi. Come dire, finché non si spara va tutto bene.  

Il pendolo oscilla

Dichiarazioni alle quali replica poco dopo Smuraglia: il senatore, durante un convegno a Celano, dice senza mezzi termini che la mafia in Abruzzo c’è già, e proprio nella Marsica si muove nel settore del commercio agricolo, apre società finanziarie, organizza truffe sistematiche alla Cee in tutta la regione. Dalla procura di Avezzano un secco commento: qui la mafia non c’è. Un balletto schizofrenico, è il pendolo della consapevolezza che oscilla pericolosamente.

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