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Domenico Di Lascio venti anni dopo

Di Marcello Cozzi il . Basilicata

Erano le 23.30 circa dell’11 gennaio 1989. Domenico Di Lascio era al
telefono nello studio al primo piano del suo mobilificio a Nemoli, sul
lago Sirino, in provincia di Potenza. Qualcuno all’improvviso entra
nella stanza e gli spara con una pistola calibro 6,35.
Di Lascio morirà solo dopo qualche giorno di agonia nella sala rianimazione dell’ospedale San Carlo di Potenza.
Sono
passati vent’anni e anche di questo omicidio non si sa assolutamente
nulla: sconosciuti i sicari, ignote le motivazioni, buio sui possibili
mandanti.
Quello stesso buio che purtroppo circonda non poche
storie dell’altra Basilicata, quella che non si vede o che non si deve
vedere, e che come in altre storie si è lasciata dietro solo
un’infinità di interrogativi.
C’è un legame, per esempio, con
quelle telefonate minacciose che arrivarono al telefono dell’ufficio di
Di Lascio nel novembre del 1986? Fu un nipote a rispondere al telefono:
“avvisare Mimì che le cose in carcere si stanno sistemando e che non la
passerà liscia”; e qualche giorno dopo: “zizì non ha capito niente
faccia attenzione”.
E ancora: quella sera dell’11 gennaio i
sicari, o il sicario, in che modo entrarono in casa Di Lascio senza
forzare nessuna porta di ingresso? Le cronache di quei giorni, infatti,
raccontano che entrarono nel mobilificio attraverso una porta
secondaria e usando una chiave di cui erano in possesso. Quella chiave,
della quale nessuno sapeva che ci fossero in giro delle copie, è stata
poi trovata e sequestrata dai carabinieri insieme ad altre chiavi del
mobilificio. Ma alcuni giorni dopo quel sequestro, in questo stesso
mazzo di chiavi, se ne trovò un’altra che apriva una porta secondaria
ma che non era nel mazzo sequestrato dai carabinieri. Chi era in
possesso di questa chiave? Chi l’ha aggiunta poi al mazzo sequestrato?
E come hanno fatto ad aggiungerla visto che ormai erano in possesso dei
carabinieri?
Nella Basilicata che ormai si ribella al silenzio
imposto per troppi anni da tante forze “occulte” su non pochi fatti di
cronaca, che trova speranza solo in un futuro che ha la capacità di
chiudere i conti con il passato, che quotidianamente scopre nella
ricostruzione della verità la via migliore per difendere una propria
dignità collettiva, in questa Basilicata non c’è più posto per le tante
domande senza risposta.
È l’ora della corresponsabilità anche
nella ricerca delle verità. Chi dopo vent’anni ricorda qualcosa che non
ha mai detto perché lo ha sempre ritenuto banale, chi ha sentito o
visto cose che ritiene importanti ma non ha mai riferito per paura o
perché è meglio farsi i fatti propri, chi sa ma non parla perché dietro
ci sono altre verità molto più gravi e molto più scottanti, chi invece
si porta un terribile peso sulla coscienza perché è colui o colei che
ha ordinato l’omicidio o lo ha materialmente commesso, dopo vent’anni
faccia un passo avanti.
È sufficiente un piccolo passo per cancellare vent’anni di silenzio complice.
Un piccolo ma significativo passo per cancellare ogni senso di colpa e mettere a tacere i rimorsi.
Un passo avanti per accorciare la distanza con le tante verità nascoste della Basilicata.

(da Libera.it)

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