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Caso Riolo-Musotto, Strasburgo
condanna l’Italia a risarcire

Di Stefano Fantino il . Dai territori, Internazionale, Sicilia

Sono passati quattordici anni da quando Claudio Riolo, politologo e docente universitario presso l’ateneo di Palermo, si vede commissionato dalla rivista mensile Narcomafie un articolo. Si tratta di una lettura politologica di un singolare fatto, occorso in quel periodo. L’allora Presidente della Provincia di Palermo, l’avvocato Francesco Musotto, decide di mantenere la difesa di un suo cliente imputato nel processo della strage di Capaci e contemporaneamente l’ente provinciale da lui presieduto decide di costituirsi parte civile nel medesimo processo. Riolo critica nell’ articolo la scelta di Musotto e analizza le possibili ragioni di tale comportamento. Da quel momento inizia il calvario giudiziario del politologo: il processo civile, arrivato a sentenza definitiva in cassazione. Musotto risulta diffamato a mezzo stampa e il docente palermitano viene condannato a risarcirlo con 140 milioni di vecchie lire. «La sentenza è ormai definitiva, e sono quindi rassegnato a subire il pignoramento di un quinto dello stipendio fino alla pensione ed oltre» afferma Claudio Riolo in una intervista rilasciata allo stesso giornale Narcomafie nel maggio 2007, dopo il pronunciamento della Cassazione. Ma Riolo non si arrende. Dopo aver valuta la presenza degli estremi del caso, tramite l’avvocato Alessandra Ballerini del foro di Genova, presenta un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che pochi giorni fa condanna l’Italia per violazione dell’art. 10 (libertà d’espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ritenendo l’articolo su Musotto non diffamatorio ma fondato su fatti veri e legittima espressione della libertà d’opinione in una società democratica. In seguito alla disposizione, lo Stato Italiano, che comunque ha tre mesi per tentare il ricorso dovrà risarcire l’autore con 60.000 €, oltre 12.000 per le spese legali. Creando una situazione potenzialmente paradossale e ponendo sulla bilancia anche radicali esigenze di cambiamento alle legislazioni inerenti la libertà di espressione, di critica e di ricerca. Una vicenda complessa che merita di essere rivisitata.

Lo strano caso dell’avvocato Musotto e di Mister Hyde

Siamo nel settembre del ’94 e la Provincia di Palermo pare restia a costituirsi parte civile nel processo per la strage di Capaci. Solo il 30 settembre, Musotto annuncia che l’ente provinciale darà il suo contributo, pur dichiarando che difenderà lui stesso uno degli imputati al processo. Tuttavia non è chiaro se a costituirsi parte civile sarà la stessa provincia oppure l’Azienda Provinciale Turistica. Spinto anche dalle polemiche montanti per la mancata tempestività nel costituirsi parte civile, Musotto scioglie le riserve il 18 ottobre del 1994. La Provincia, il 21 febbraio dell’anno seguente, quando a Caltanissetta si aprirà il processo, sarà presente. A rappresentarla però sarà il vicepresidente. Lui, Musotto, conferma la volontà di mantenere, da penalista, la difesa di un suo cliente imputato nello stesso processo per la strage di Capaci. Ma facciamo un passo indietro. Già nell’ottobre del 1994 Narcomafie, giornale diretto da don Luigi Ciotti pubblica “Mafia e diritto. Palermo: la provincia contro sé stessa nel processo Falcone. Lo strano caso dell’avvocato Musotto e di Mister Hyde”, il famigerato pezzo dove il politologo Riolo analizza la controversa decisione di Musotto, parte civile e contemporaneamente difensore all’interno del processo per la strage di Capaci.

Cosa scrive in quell’articolo Riolo? Sempre nell’intervista di Manuela Mareso per il mensile torinese, il docente palermitano sintetizza quel suo intervento: «Nell’articolo riportavo fedelmente i fatti accaduti e avanzavo un’analisi critica sulle possibili cause e conseguenze di un comportamento così contraddittorio. Parlavo di conflitto di interessi, di valore simbolico della costituzione di parte civile, di condizionamenti dell’elettorato – ovvi per qualsiasi politico, ma nel caso specifico ammessi pubblicamente da Musotto – ma escludevo esplicitamente l’esistenza di accordi illeciti. Ricostruivo, infine, l’adattamento mafioso all’evoluzione degli equilibri politici dal dopoguerra ai primi anni Novanta».
Un’analisi che mira a evidenziare le strategie mafiose di condizionare la sfera istituzionale, una finalità pubblica ritmata dal diritto di cronaca, di critica e dalla libertà di ricerca (art.21, 33 e 49 della Costituzione). Musotto attende. Ma nell’aprile 1995, dopo cinque mesi, avvia un procedimento civile nei confronti di Riolo per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa. 500 milioni per danno patrimoniale e 200 milioni per danno morale, per un totale di 700 milioni di risarcimento. L’azione è indirizzata solo contro l’autore, Claudio Riolo, senza che la rivista Narcomafie venga toccata dal procedimento.

La risposta della stampa

Il sostegno alla persona di Claudio Riolo si concretizza tramite la ripubblicazione dell’articolo, che contemporaneamente appare sul numero di maggio di Narcomafie e sul numero del 3 maggio ’95 del quotidiano “Il Manifesto”. Alla firma dell’autore vengono aggiunte quelle di 28 esponenti del mondo politico e culturale italiano che fanno proprio il contenuto dell’articolo di Riolo e ne condividono i contenuti ritenendolo un legittimo atto di espressione della libertà di stampa e di critica politica. A firmare sono: Salvatore Alamia, Aurelio Angelini, Antonio Bargone, Luciana Castellina, Franco Cazzola, Luigi Ciotti, Mario Dogliani, Giuseppe Di Lello, Pietro Folena, Francesco Forgione, Alfredo Galasso, Tano Grasso, Giuseppina La Torre, Giuseppe Lumia, Simona Mafai, Luigi Manconi, Antonio Marotta, Alfio Mastropaolo, Massimo Morisi, Gaspare Nuccio, Renato Palazzo, Rosanna Pirajno, Franco Piro, Umberto Santino, Massimo Scalia, Alberto Sciortino, Nichi Vendola, Gianfranco Zanna. Dopo la pubblicazione Musotto non ritiene di dovre procedere nè civilmente nè penalmente contro le due testate, nè tantomeno con i nuovi “co-autori”.

Il processo civile: i tre gradi di giudizio e le battaglie per la libertà di informazione

Intanto, macchinosamente, il processo all’autore primigenio dell’articolo va avanti. Ci vogliono quasi sei anni ma si arriva alla sentenza di primo grado, emessa da un giudice non togato, un avvocato in funzione di giudice unico della Prima sezione Civile Bis del Tribunale di Palermo. Riolo è condannato a pagare 80 milioni per danni morali, che con gli interessi pregressi e quelli futuri salgono a 140. Da quel momento, visto che le sentenze civili hanno immediata esecuzione, il docente vede mensilmente pignorato un quinto dello stipendio che nella stessa busta paga è indicato come “pignoramenti e sequestri”, da indirizzare all’onorevole Musotto. Per esaurire il debito non sarà sufficiente il tempo che lo separa dalla pensione e, quindi, l’atto di pignoramento prevede esplicitamente anche l’indennità di fine rapporto. Intanto qualcosa si muove nella società civile. Nell’anno della prima sentenza viene messa in atto una campagna per la libertà di stampa nella lotta alla mafia, con l’intento di raccogliere, tramite una sottoscrizione, dei fondi che aiutino nel sostenere le spese legali gli autori di articoli e interventi che sono stati portati in giudizio (scarica qui il comunicato dell’epoca, riguardante la campagna). Riolo ricorre in appello e dopo circa due anni, nell’aprile del 2003, la Prima Sezione Civile della Corte di Appello di Palermo conferma la sentenza di primo grado. Passano tre mesi e l’autore ricorre in Cassazione . Dopo 3 anni e 8 mesi, nel marzo 2007 la Terza S
ezione Civile della Corte di Cassazione deposita la sentenza che respinge il ricorso nonostante il pubblico ministero ne avesse accolto uno dei motivi.

La via europea e la sentenza del luglio 2008: colloquio con Claudio Riolo

Tredici anni dopo l’inizio delle battaglie legali, Claudio Riolo può assaporare il gusto della soddisfazione. «Una vittoria di principio» come la definisce lui quando lo raggiungiamo telefonicamente. Il tutto inizia nel settembre 2007 quando il docente palermitano incontra l’avvocato Alessandra Ballerini, del foro di Genova. «Un incontro fondamentale per passione e grinta dimostrata» dice Riolo: è tramite l’avvocato che il docente presenta ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che nel luglio 2008 condanna l’Italia per violazione dell’art. 10 (libertà d’espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ritenendo l’articolo su Musotto non diffamatorio ma fondato su fatti veri e legittima espressione della libertà d’opinione in una società democratica. Lo Stato italiano dovrà risarcire l’autore con 60.000 euro oltre 12.000 per le spese legali (scarica una sintesi della sentenza in lingua francese oppure in inglese, o uno stralcio in italiano).
Viva soddisfazione ma anche amarezza per non aver trovato in Italia un giudice che ascoltasse le mie ragioni. «In un momento molto buio per quel che riguarda la libertà di stampa si tratta di una importante vittoria di principio – commenta Riolo – ma rimane l’amarezza di essere dovuto ricorrere a Strasburgo, io sempre favorevole all’indipendenza della magistratura». Ora lo squarcio aperto dalla sentenza europea potrebbe rivelarsi più grande di quello che appare. «Innanzitutto non si tratta di un quarto grado di giudizio – sottolinea Riolo- ma di una sentenza di merito che che non si vuole insinuare come un eventuale passo successivo alla decisione della Cassazione». Il fatto di aver esaurito i tre gradi di giudizio nel processo civile era condizione necessaria per il ricorso europeo ma il pronunciamento di Strasburgo non si pone come qualcosa in conflitto con la decisione della Cassazione o suscettibile di riaprire il processo. Non vi è dunque un collegamento automatico tra la decisione dei giudici europei e la vicenda giudiziara italiana, fermi restando la difficile comprensione dei rapporti tra diritto nazionale e sovranazionale, e la predominanza di una valutazione europea su quella del singolo stato, anche se potrebbero verificarsi delle situazioni paradossali. Riolo continuerebbe a vedersi pignorato un quinto dello stipendio e al contempo riceverebbe dallo Stato italiano un compenso di risarcimento perchè il pignoramento stesso non era “teoricamente” valido. Situazioni paradossali, grottesche. Ma al momento è tutto ancora fermo. Lo Stato italiano ha tre mesi per fare ricorso. Ma per ora, sebbene ammantata di amarezza, una vena di soddisfazione si può sicuramente cogliere nelle parole del professor Riolo. In attesa di norme più chiare che regolino e soprattutto garantiscano, dei diritti fondamentali nella nostra società.

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