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2. La pax nei mandamenti latini. Ecco le cosche de noantri

Di Alessio Magro il . Dai territori, Lazio

È nata nelle borgate e nelle città di provincia, si è integrata, ha mutato pelle. La quinta mafia, quella del Lazio,  non crea allarme perché non è un corpo estraneo.  Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta sono da anni delle mafie stanziali, cresciute fino a diventare altro. Il legame con il territorio, la fusione con la mala del luogo – la banda della Magliana è un esempio rappresentativo – gli affari con imprenditori e professionisti locali fanno delle cosche laziali un qualcosa di diverso dai clan della casa madre. Sono una “cosa nuova”, “cosche de noantri”, che sanno convivere e federarsi al di là delle differenti origini. Una pax interregionale condivisa e duratura. Sanno anche mimetizzarsi, usando uomini del territorio come paravento. Questo è il nuovo modello di controllo del territorio, per evitare le guerre e il rigetto della società civile.

Come alieni della fantascienza classica, hanno agito sotto traccia, si sono mescolati agli altri con indosso una maschera di rispettabilità. Lo schema è simile in tutta la regione: dai primi insediamenti, seguiti alle latitanze o ai soggiorni obbligati di mafiosi del Sud,  è nata una mafia endogena. Uno sviluppo per gradi, ma continuo. Ai soldi sporchi, si sono affiancate le competenze di Cosa nostra, la manovalanza locale e quella dei camorristi e degli ‘ndranghetisti, quindi un terzo livello imprenditoriale tutto laziale. Il tutto con coperture politiche trasversali. Cemento, alberghi, centri commerciali, appalti, ristorazione, rifiuti, ortofrutta e trasporti, usura e partecipazioni mafiose nelle imprese. Come in Campania, in Basilicata, in Puglia, in Calabria e in Sicilia. Si ricicla molto di più, ci si fa notare molto di meno. La mafia si è fatta imprenditrice.  Una mutazione genetica avvenuta, secondo i magistrati in prima linea, negli anni 80. Il tutto sotto silenzio. Nel Lazio la parola mafia troppo spesso non si può usare, come ai tempi dell’onorata società.

È stato così negli ultimi trent’anni, agli albori della mafia laziale, quando Pippo Calò si trasferì a Roma nella sua latitanza e strinse contatti con la banda della Magliana, la mala che si fa mafia. O ancora con il famigerato “Frank tre dita” nella zona di Pomezia. È stato così: bassa tensione, negazionismo, e contrasto a intensità ridotta e a singhiozzo. Mentre i piani regolatori prevedevano la cementificazione selvaggia (a Latina si sono immaginati vani per 300mila abitanti). Mentre alle porte dell’impero svettavano mega alberghi, i prati lasciavano il posto ai centri commerciali. Gente con un passato da “indesiderato” che diventa costruttore di successo, imprenditori e professionisti organici alle mafie candidati alle elezioni, ci sono anche militari, 007 e investigatori con qualche scheletro nell’armadio. La politica ha protetto le mafie, tra corruzione e infiltrazioni mafiose non c’è più un confine netto.

E così alle indagini sulla banda della Magliana, ai commissariamenti, agli arresti e agli scandali non è seguita una presa di coscienza totale e piena. Non mancano segnali importanti a livello istituzionale, come l’istituzione della Commissione speciale sulla Sicurezza della Regione Lazio e il relativo osservatorio. Ma ci sono anche pericolosi cedimenti. Come l’assurda polemica scatenata contro la segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini, sbeffeggiata sul Corsera e sulla Rai per l’allarme mafia nella Capitale. Dall’ex prefetto Achille Serra una sponda: Roma è sicura, la criminalità organizzata non è radicata. Le inchieste e le relazioni degli addetti ai lavori vanno in tutt’altra direzione. Una polemica inquietante, soprattutto perché non è vecchia di anni, ma di mesi. (SECONDA PUNTATA)

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